Perché investire i fondi “Next generation Eu” sulle politiche attive del lavoro
A Novembre è uscito il rapporto 2020 del Ministero del Lavoro sul Reddito di cittadinanza: un’occasione per valutare pro e contro, pregi e difetti di questa misura di contrasto alla povertà fortemente voluta dal M5S durante il Governo “Conte1” e di fatto confermata dall’attuale alleanza con il Partito democratico.
L’idea di un “tagliando” al RdC sembra per ora essere confinata nell’ambito degli esperti del settore, più che affrontata dal dibattito politico nazionale.
E’ un peccato, perché un ragionamento laico e più approfondito da parte delle forze di Governo sarebbe davvero auspicabile.
Non tanto per tornare indietro su un intervento che nel 2019 comunque ha aiutato quasi due milioni e settencentomila persone (per quasi un milione di nuclei familiari) e che quindi può dare una risposta importante soprattutto nell’attuale fase di crisi economica e sociale determinata dal Covid; quanto piuttosto per migliorarlo e renderlo ancora più efficace alla luce dei dati raccolti fino ad oggi.
Alcune analisi recenti ne hanno infatti sottolineato i limiti: tra questi, la penalizzazione di fatto delle famiglie numerose, il non essere calibrato sulle diverse aree geografiche in base al costo della vita, l’esclusione di gran parte dei poveri perché di origine straniera e senza cittadinanza italiana da almeno dieci anni, per concludere col problema dei percettori che nascondono un lavoro in nero.
La povertà in Italia è ancora ben lontana dall’essere abolita.
Tuttavia, forse il limite più grande riguarda il secondo pilastro che avrebbe dovuto caratterizzare il Reddito di cittadinanza: il sistema delle politiche attive del lavoro.
Al momento della sua introduzione, infatti, l’RdC è stato presentato come un sistema integrato di contrasto alla povertà capace, allo stesso tempo, di indirizzare e accompagnare i suoi percettori nel mondo del lavoro, come del resto avviene con progetti simili in altri paesi europei.
Il bilancio, da questo punto di vista, è piuttosto negativo: anche se il Governo non è molto efficiente nel comunicare dati aggiornati (per usare un eufemismo), dagli ultimi resoconti risulterebbe che ha trovato lavoro solo il 9,6% dei sottoscrittori ritenuti idonei.
Di fatto un fallimento, in carico ad Anpal e al suo Presidente Mimmo Parisi, il professore del Missisipi incaricato da Di Maio per rivoluzionare il settore ma poi finito al centro di numerose polemiche (rimborsi spese compresi) tanto da non avere un buon rapporto nemmeno il Ministro del Lavoro Nunzia Catalfo (in quota M5S).
In Italia, comunque, quello delle politiche attive è un punto dolente storico: siamo infatti da sempre lontani dai numeri e dall’efficienza del sistema di avviamento al lavoro di altri paesi europei, come quello tedesco.
Secondo l’Ocse l’Italia è il paese con il più alto mismatch tra le competenze delle persone in cerca di lavoro e quelle richieste dalle imprese.
Eppure è indubbiamente questa una delle chiavi per affrontare la crisi economica e sociale attuale: i ristori e le misure assistenziali stanziate dal Governo sono importanti, ma tutti sanno che non potranno durare in eterno. Le risorse per la cassa integrazione finiranno tra qualche mese e prima o poi dovranno essere sbloccati i licenziamenti, rendendo così indispensabile avere percorsi di formazione e ricollocamento dei lavoratori espulsi dal mercato.
In più, sappiamo che il mercato del lavoro è un mondo in continua evoluzione: secondo un report del World economic forum, il 40% delle competenze richieste mediamente sul lavoro cambierà nei prossimi cinque anni e quasi un lavoratore su due avrà bisogno di seguire un percorso di riqualificazione solo per il posto di lavoro che già occupa.
Questa allora è una delle principali sfide che dovrà affrontare il nostro paese, una sfida complessa che deve misurarsi anche con una governance del settore mai risolta: così com’è l’Anpal, creata nel 2015 dal Jobs act, non può di fatto governare un sistema frammentato di politiche attive rimaste di competenza delle singole Regioni dopo la bocciatura della riforma costituzionale del 2016.
Perché allora, insieme a una riorganizzazione della governance delle politiche attive in Italia, non approfittare dello stanziamento dei fondi del “Next generation Eu” per investire su questo capitolo?
Sarebbe l’occasione per avere finalmente in tutto il paese un sistema davvero efficiente, dotato di personale numeroso e qualificato (più degli attuali Navigator, che hanno una formazione soprattutto giuridica), con strutture di Centri per l’impiego adeguate e un insieme di database condivisi tra le Regioni, come suggerisce l’economista Pietro Garibaldi.
Se davvero le risorse europee sono destinate alla next generation europea, il lavoro è davvero il primo punto da cui partire.